La chiusura dei ristoranti e l’affondo alla cultura italiana
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
(Art. 1 – Costituzione Italiana)
Era il 4 maggio 2020 quando il Premier Giuseppe Conte firmava l’ennesimo (ma non ultimo) DPCM relativo alla cosiddetta Fase2.
Quella ripartenza che in molti lavoratori non tutelati da un sistema assistenzialista, o scettici relativamente a utopiche casse integrazioni, attendevano ormai da mesi.
Lavoratori e imprenditori appassionati, mossi dal desiderio di tornare a svolgere onestamente e responsabilmente la propria attività, così come sancito dall’articolo 4 della nostra Costituzione.
Ricordi i Principi Fondamentali della Costituzione Italiana? Ripassiamoli velocemente insieme!
Tra i lavoratori, figurano ovviamente anche i ristoratori e gli addetti al settore turistico – comparto che nell’economia attuale del Paese rappresenta da sola il 25% del Pil – e che, presa coscienza delle nuove normative per “riaprire in sicurezza” definite dal Governo centrale e dagli enti locali, hanno investito ingenti somme di danaro per adeguare le proprie strutture alle cosiddette norme anticovid.
E’ così che tra cerificati, plexiglass, termoscanner, prodotti e macchinari per la sanificazione, riconversione degli impianti di areazione, predisposizione di dehors e – in taluni casi – drastica diminuzione dei coperti, i ristoranti italiani sono ripartiti mettendo mano al portafoglio e sfoggiando la loro proverbiale arte dell’accoglienza.
Ripartenza in sicurezza dunque, in un’estate in cui l’esecutivo – ci si aspettava – avrebbe dovuto prepararsi ai tempi freddi e difficili che gli scienziati avvisavano sarebbero tornati con l’autunno, le riaperture delle scuole e il progressivo ritorno negli uffici.
La realtà ci mostra che non è andata esattamente così e che, dopo mesi di immobilismo e incapacità di mettere in sicurezza il Paese con efficaci misure preventive (e senza aver effettuato alcun controllo nei ristoranti), il DCPM annunciato domenica 25 ottobre (il quinto emanato in soli ventuno giorni!) ha scelto di colpire con un semi lockdown i settori che più di tutti avevano mostrato di sapersi adeguare alle regole, imponendo chiusure ingiustificate e condannando consapevolemente un comparto destinato a ridurre nel giro di una settimana i propri fatturati del 90% e, nei casi più drammatici, del 100%.
DPCM> Scopri con parole semplici di cosa si tratta e come può essere utilizzato
Nel comunicare i contenuti del DPCM, il Premier Conte ha definito la categoria dei ristoranti (così come quella delle palestre, delle strutture fieristiche, dei cinema e dei teatri – esercizi costretti alla chiusura totale della propria attività) come “attività sacrificabili” in “questa difficile fase in cui stiamo assistendo a un’inarrestabile evoluzione dei contagi“.
Eppure, da un recente studio scientifico di Altamedica, emergerebbe che il 97% dei contagiati non aveva frequentato bar e ristoranti, il 95% non aveva frequentato palestre, mentre il 94% non era mai entrato in un cinema o teatro.
Al contrario, il 58% aveva utilizzato il trasporto pubblico per il quale – vale la pena ricordarlo – lo scorso agosto, il Ministro dei Trasporti Paola de Micheli aveva “risolto” il problema del distanziamento sui mezzi stabilendo il principio secondo cui “gli studenti siano considerati congiunti”, combattendo il covid a colpi di semantica e neo-linguismo, invece di aprire un dialogo – ad esempio – con società di trasporto turistico o taxisti (società, tra l’altro, duramente colpite dalla pandemia), implementando le corse da un lato e soccorrendo categorie in difficoltà dall’altro.
Ciò nonostante, ancora una volta, bar e ristoranti si sono adeguati alle disposizioni, accettando il cosiddetto pacchetto Ristoro che, dal un lato ha escluso e discriminato molti rappresentati della categoria – omettendo alcuni codici Ateco dall’elenco dei beneficiari – dall’altro ha previsto un bonus non calcolato sui costi fissi dell’attività, prevedendo un ristoro pari in media al 40% dei fatturati mensili di un’attività.
I ristoratori si sono adeguati a un contributo che però ciascuno di noi sarà costretto a ripagare con l’istituzione di nuove tasse o – come il non troppo lontano 1992 ci rammenta – attraverso l’imposizione di una tassa patrimoniale, strumento perfetto in una Società storicamente formata da piccoli risparmiatori.
Fatta eccezione per qualche reazione individuale (si pensi alla lettera di Massimo Bottura o alle parole di Iginio Massari), o alcune dimostrazioni di piazza svoltesi in tutta Italia, i ristoratori italiani non hanno saputo mostrare coesione, legittimando la scelta dell’Esecutivo di “sacrificare” (verbo ripetuto più volte dall’oratore Conte) quelle categorie meno compatte o solidali, ma soprattutto meno rappresentate da associazioni forti o sindacati.
Iniziativa che, secondo voci ufficiose, sarà semplicemente anticipatoria a una più incisiva e dannosa per un settore ESSENZIALE che oggi coinvolge oltre un milione duecentomila addetti (senza ovviamente considerare tutto l’indotto generato dalle società alimentari e di servizi collegate).
E mentre oggi assistiamo a una progressiva trasformazione dei ristoranti in delivery o società di somministrazione di cibo a domicilio, rimanendo inermi innanzi ai suicidi di alcuni imprenditori del settore, è sempre meno astratto lo scenario di un futuro in cui molte attività saranno costrette alla chiusura, mentre altre saranno letteralmente consegnate nelle mani di multinazionali o associazioni criminali.
Mentre i lavoratori onesti chiedono solo di poter lavorare.
Oltre un milione duecentomila lavoratori onesti.
Oltre un milione duecentomila contribuenti.
Nessuna carità.
Nessun ristoro.
Nessun reddito di cittadinanza o sussidio.
Ci apprestiamo così al decadimento di uno dei settori culturali più importanti del nostro Paese. E non è casuale che sia stata proprio la Cultura il primo bersaglio a essere stato represso. Poiché, come sosteneva Karl Kraus “Quando il sole della cultura è basso, i nani hanno l’aspetto di giganti“.