Diviene facile narrare di un ristorante e di uno chef nel momento in cui raggiungono notorietà e popolarità.
Sì, oggi sembra scontato introdurre una personalità come quella di Cristiano Tomei come una tra le più estrose, vulcaniche e geniali dell’universo gastronomico.
Come del resto sembra banale osannare la sua cucina come tra le migliori del nostro Paese.
Sembra facile perché, a seguito dei numerosi successi mediatici, sono in molti ad aver finalmente scoperto il fenomeno Tomei e a vedere nel modello da lui introdotto agli inizi del nuovo millennio, il perfetto approccio al contesto ristorativo contemporaneo.
Perché sì, oggi tutti conoscono Cristiano Tomei e il suo ristorante L’Imbuto.
Ma, sia chiaro: chi vi scrive, è ossessionata dal Tomei da epoca non sospetta.
Chi vi scrive, narrava di un Tomei “estroso, vulcanico e geniale” quando ancora TV8 non viaggiava nell’etere.
Chi vi scrive, è adepta e votata a Cristiano Tomei e alla sua “cucina scopativa” da tempi immemori.
> Leggi l’intervista a Cristiano Tomei
Chi vi scrive insomma, non potrà raccontare con fare distaccato di Cristiano Tomei e del suo ristorante L’Imbuto, ma vanta quantomeno una conoscenza approfondita del suo lavoro, della sua vocazione e della sua anima.
Elementi che vivono più che mai, nonostante l’incalzante celebrità dello chef viareggino e il recente trasloco di sede, che ha portato L’Imbuto ad abbandonare gli spazi occupati con successo del Lu.C.C.A Museum, a favore di una delle dimore settecentesche più affascinanti nel centro di Lucca: quel Palazzo Pfanner celebre, oltre che per i suoi giardini e la sua bellezza, per essere stato il set cinematografico della pellicola di Mario Monicelli con protagonista Alberto Sordi, Il marchese del Grillo.
Si riparte dunque da qui, da quei luoghi che ospitarono le scuderie del Palazzo stesso e che oggi rivivono nuova linfa grazie a un «Cristiano Tomei più scatenato, volenteroso e anarchico che mai!» che da quegli scenari trae la giusta energia per maturare ulteriormente la sua incessante evoluzione che – per dirla col Tomei – «non deve avvenire per sorprendere, ma per perché è la natura della cucina stessa ad esigerlo!».
Un’evoluzione capace però di fissare l’attimo, senza mai distaccarsi da un contesto speciale in cui l’elemento del ricordo vive attraverso la sua storia e la visione artistica non solo architettonica, ma anche degli splendidi giardini barocchi progettati da Filippo Juvarra agli inizi del Settecento, e in cui oggi si rincorrono oltre centocinquanta piante di agrumi.
Energia dunque, alla base di un progetto che conferma la sua vena anarchica e avanguardista in cui lo Chef non si limita a cucinare, o quantomeno non lo fa nella maniera classica e accademica; lo fa con l’impegno, la personalità e la genialità tipica degli autodidatti. Lo fa con l’estro, la creatività e la smania di rinnovarsi tipica delle anime tormentate dalla curiosità, dall’eclettismo e dalla voglia di cambiamento.
Non è un caso se, chi è stato a L’Imbuto in più di un’occasione, vi racconterà di non aver praticamente mai assaggiato due volte lo stesso piatto. Chef Tomei sperimenta, cambia, affina. E lo fa in maniera accessibile a tutti.
Il format è sempre quello: menù inesistenti, con percorsi “in lunghezza” da scegliere “al buio”. Cosa arriverà a tavola dipende dalla stagionalità e dall’estro dello Chef. Agli ospiti si chiede solo di comunicare allo staff eventuali cibi non graditi, e ogni commensale avrà un menu su misura, ma sempre a sorpresa.
Estro dunque, e creatività quali elementi pulsanti di una cucina desiderosa di uscire dagli schemi identificativi moderni, costruiti intono ad altisonanti neologismi e gabbie gastronomiche.
La melanzana ritrova ragion d’essere nella versione prima bollita e poi fritta, in accompagnamento a bottarga di muggine, acqua di pummarola, nepitella e burro d’arachidi che – bilanciando il piatto con la dovuta dolcezza – trova probabilmente la sua definitiva e armonica collocazione in cucina.
La triglia, laccata con salsa di pinoli e “mascherata” da una sfoglia di pomodoro e brodo di triglia, sintetizza in un certo senso la figura dello chef e i suoi ideali palesemente anarchici: la scelta di portare agli estremi la componente sapida con una salsa all’amatriciana, non fa che esaltare il gusto di un pesce tra i più nobili, elevandolo a picchi di piacere e gusto estremi. E come ogni amatriciana che si rispetti, merita di essere conclusa con la scarpetta.
Sono sufficienti due portate per comprendere quanto Cristiano Tomei non sia cambiato: la cucina spinge verso gusto, sapore ed emozione, ribadendo incessantemente quel mantra che lo chef tiene spesso a rimarcare, ovvero che «la cucina è semplicemente buona o cattiva!». Il resto, è fumo negli occhi.
Ambiziosa l’aragosta alla brace, che ricerca mascolinità attraverso sistemi di cottura ancestrali e piacevoli note affumicate accentuate da una reinterpretazione della salsa barbecue. Ancora brace con il totano, servito con humus, asparagi e achillea.
Ricordo proustiano per l’Ostrica con prosciutto e melone, un piatto che riprende le sperimentazioni paterne del passato, evolvendosi in una versione accompagnata da melone fermentato in brodo di Spalla cruda di Langhirano e aceto; ottima la crocchetta di gallina lessa e ostrica che demolisce definitivamente l’idea più classica e borghese della degustazione in purezza dei conchigliage per antonomasia.
Adrenalina pura per l’interpretazione della panzanella, che per Cristiano Tomei trova forma con degli scampi serviti con salsa di pane fermentato per oltre un mese, peperoncino, lampone, peperone cornetto e germogli di abete bianco tagliati al coltello.
Vale il viaggio l’Ossobuco, che nella versione dello Chef viene inciso in verticale e scaldato sulla brace, quasi a bollirne il midollo al suo interno, successivamente ripassato in salamandra e servito con tartare di gamberi, spaghetti di seppia, polpa di riccio, scorza di limone, estratto di rosmarino e foglie di sedano. Sintesi esplicativa di ciò che possa realmente essere la “cucina scopativa” tomeiana che sul fieno (affumicato), trova la sua collocazione e immagine figurativa più agreste e bucolica. Picco assoluto di piacere, capace di coinvolgere ogni senso: quello della vista, appagata da una piccola opera d’arte; quello dell’olfatto, viziato dai piacevoli sentori dell’affumicatura del fieno; quello del tatto, indispensabile per godere sino in fondo dell’assaggio, e ovviamente, quello del gusto.
L’elemento più apprezzabile de L’Imbuto resta la volontà di far mangiare il cliente; non è casuale che nessun piatto venga esasperato nella sua narrazione prima dell’assaggio, lasciando semplicemente il passo a un breve elenco degli ingredienti principali, prima di porgere la portata. Come nel caso di prosciutto e fichi, ovvero un risotto cotto in un brodo di spalla di prosciutto di Langhirano ed estratto di foglie di fico: piatto capace di trasportare la mente a ricordi lontani in cui rivivere caldi pomeriggi in cui – da bambini – ci avventuravamo in terreni sconosciuti a rubare dalla pianta dolcissimi fichi.
Sui primi, Cristiano Tomei si concede le licenze più ambiziose, al fine di soddisfare quella creatività che – per stessa ammissione dello chef – «è sì un’esigenza mentale, ma altresì fisica!». Creatività provocatoria che tende a rivedere ogni tipo di preconcetto in merito alla pasta – elemento principe della cucina mediterranea. Provocazione che, con maestria, lo porta a scuocere la pasta e riproporla in un raviolo, sintesi di gusto e piacere, o a demonizzare lo spaghetto risottato, controproponendo una versione condita con l’amido della pasta stessa, ottenuto facendo stracuocere dell’altra pasta (scusate se abbiamo letteralmente stressato il concetto di “pasta”).
Evergreen l’Anguilla in carpione, cotta nell’argilla e presentata con i piacevoli contrasti dati dall’affumicatura del fieno. Un piatto che è tutto, fuorché esasperato, e che conferma quanto l’energia possa far vibrare idee e gusto.
Bomba di piacere per il fagiano cotto nel burro e servito con salsa bernese, proposto all’interno di un toast realizzato con pane raffermo ammollato in acqua e rimpastato con cipolle cotte sotto cenere. Un vero e proprio viaggio dalla meta certa: il Paradiso!
E se è vero che – come sostiene Tomei – «la cucina raggiunge i massimi livelli quando si pulisce», doveroso fare ritorno alle origini della materia e al rispetto di essa, in piatti come la lepre in civet, specialità tipica della tradizone delle Langhe.
I piatti sono il risultato di un vissuto e di un’esperienza, ma spesso anticipano ciò che sarà. E chi lo dice che il futuro non sia un germano reale con ciliegie, cotto nel suo grasso e servito al tavolo nel tegame unto? Meditate gente…
Ogni piatto è accompagnato da un servizio di sala che si conferma essere uno dei migliori del panorama ristorativo italiano, esemplare per freschezza, rapidità, sorriso e cordialità. A coordinare con grande professionalità la sala è Laura Verpecinskaite, moglie di Tomei sommelier e raffinata padrona di casa, in grado di consigliare i clienti in ben cinque lingue.