Vi è chi sussurra che lo Skyline di New York sia stato progettato su ispirazione delle celebri Torri di San Gimignano.
Quella “San Gimignano delle belle torri” collocata a circa cinquanta chilometri da Firenze che ancora oggi rappresenta uno scrigno di conservazione medievale, giustamente tutelato dall’Unesco, quale Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
In questo Teatro di rara suggestione vi è voluto del tempo affinchè la ristorazione iniziasse a prendere coraggiosamente le distanze dalle più diffuse formule “mordi e fuggi” frequentemente avvalorate da un turismo senza grandi pretese.
Tempo che sembra poter innescare un punto di (ri)partenza soprattutto grazie all’iniziativa di un uomo, che risponde al nome di Lorenzo Di Paolantonio.
Classe ’86 e sangimignanese di nascita ma abruzzese di origine, Lorenzo cresce nei ristoranti di famiglia, trascorrendo probabilmente più tempo tra le mura dei locali che nella sua cameretta o al parco con i propri coetanei. Ogni festività della sua adolescenza è confinata in Sala nel ristorante di mamma Genziana e – terminato il liceo scientifico – viene definitivamente destinato alla direzione del secondo ristorante di famiglia – il Cum Quibus – locale in cui ha l’oppotrunità di sperimentare il tipo di ospitalità a cui aspira e che, sin dal principio, gli consegna una soddisfazione dopo l’altra. Trascorso un decennio matura il desiderio di rivederne la formula e, forte dei successi maturati sino ad allora, sceglie di compiere il salto di qualità, amplificando l’espressività in cucina e importando nella bella San Gimignano il fine-dining di qualità.
Azzardo immediatamente notato e ricompensato dalla Guida Michelin che, nel 2017, assegna al Cum Quibus l’ambito macaron motivando Di Paolantonio a fare sempre meglio. Ambizione che lo induce ad aprire una seconda insegna poco prima dell’Annus horribilis per la ristorazione e che, in men che non si dica, gli consegna una nuova Stella Michelin.
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Nasce così il ristorante Linfa di San Gimignano, nome non casuale e scelta che racchiude in sé il concetto di vita, natura e nutrimento (Treccani docet) che Lorenzo sceglie tra l’altro di materializzare all’ingresso del locale collocando una pianta rigogliosa, col suo fusto, i suoi rami e il suo verde fogliame. In sintesi, con la sua linfa.
Responsabile dei fuochi del ristorante Linfa lo chef Vincenzo Martella, classe ’77 e brindisino di nascita che dopo numerose vicissitudini si iscrive all’Istituto Alberghiero, entra nelle prime brigate di cucina e manca la laurea in Scienze dell’Alimentazione a Tor Vergata per solo sei esami. Durante il suo soggiorno romano ha l’occasione di iniziate la prima vera esperienza formativa della sua carriera al ristorante La Rosetta di Roma (1 Stella Michelin) che gli apre gli occhi su quello che dovrà essere il suo prosieguo professionale.
Seguono importanti esperienze blasonate tra cui quella alla Locanda dell’Angelo Paracucchi, all’Antica osteria del teatro a Piacenza, al Grand Hotel Villa Cora a Firenze, uno stage al tristellato Sant’Hubertus, Borgo Egnazia in Puglia, Borgo Pignano a Volterra – dove trova il contatto con la Terra e scopre la possibilità di portare avanti una cucina autarchica e auto-prodotta – per approdare infine alla guida dei fuochi al ristorante Linfa.
Una cucina etica quella del ristorante Linfa vicina ai produttori, promotrice di un Territorio bellissimo, e strutturata intorno al ricordo – quello di uno chef che ha avuto il privilegio di crescere in un contesto gastronomico culturalmente ricco, come quello pugliese.
Una cucina in cui – evidentemente – le frattaglie si ritagliano un ruolo importante, venendo spesso accostate a elementi più nobili e talvolta inaspettati. Una cucina che non insegue tendenze o mode ma che resta fedele al concetto di sostenibilità e alla tradizione dello chef.
Attitudine fin troppo evidente a partire dagli amuse-bouche in cui il quinto quarto recita il ruolo del “maschio Alfa”, con la sequenza di Chips realizzate con zampe di gallina, creste di gallo e nervetti, l’alternativa servita con Chimichurri e teste di Alice essiccate o le Tartellette con mela, fegatino di pollo, nocciola e acciuga; freschissime le Olive ripiene di cioccolato bianco e polvere di pomodoro e di proustiana memoria il Lampone con caviale di melanzana.
I lievitati sono realizzati ovviamente in casa con grani antichi e patate e i cracker tirati a mano con olio extravergine d’oliva.
La Carta del ristorante Linfa è essenziale, formata da quattro antipasti, altrettanti primi e a stessa quantità di secondi. La formula del menù degustazione è accattivante e coinvolgente, in quanto viene concesso al cliente di comporre un menù da 5 o 7 portate a mano libera – seguendo unicamente il proprio gusto personale, senza conformarsi o vincolarsi agli standard di successione e scelta, e divenendo “regista” per una sera.
Dovendo costruire un proprio menù, difficile non scegliere la Tartare di Pecora, Ostriche, Salsa Bernese in cialda di pane, un’apertura epocale che ci consegna una tartare delicatissima in cui l’accostamento salmastro del pregiato conchigliaceo esalta e valorizza l’abbinamento terra-mare, reso ancora più convincente dalla piacevole acidità della bernese. Un piatto in cui non viene meno l’aspetto etico, rappresentato dal piccolo aspic in accompagnamento, realizzato con gli scarti e il brodo dell’ovino, a cui si aggiungono le verdure a mirepoix.
Le materie più umili innescano sinergie perfette con elementi raffinati e dai contrasti altisonanti: il Cuore di vitello con albicocca e uova d’aringa è spiazzante, pur rimandendo saldamente ancorato a una cucina facilmente comprensibile: la ferrosità delle carni triangola senza sbavature con la piacevole affumicatura del pesce osseo e con l’acidità conferita dall’albicocca.
Più nobile ma per nulla scontato il Foie Gras che al ristorante Linfa è cotto e passato al cannello, e servito con verza (scannellata anch’essa), fondo di maiale e ricci di mare. Un piatto che gioca sulla piacevole cremosità del foie gras in contrasto con la turgida masticosità del cavolo e che non delude in alcun modo nella scelta (chi scrive, è ormai esasperata per la ripetitività e la mancanza di idee che ruotano intorno a questa materia).
Goloso il Risotto San Massimo Riserva servito con rognoni di coniglio, fondo di pollo, salsa al ginepro, estrazione di acqua di zafferano di San Gimignano e una crema di porro e vino bianco, con cui il riso viene mantecato in chiusura (insieme a burro e aceto bianco) – al fine di conferire la meritata acidità al piatto.
Commoventi i Bottoni di pasta ripieni con latte di pistacchio, cozze, cacio e pepe, un piatto che punta ad autoproclamarsi signature del ristorante Linfa e che chef Martella sceglie di servire chiuso o aperto, a seconda dell’ispirazione del giorno in cui viene realizzata e confezionata la pasta – ovviamente espressa. Una bontà spiazzante in cui ogni elemento sembra essere nato per legare con l’altro: accordo perfetto tra le note salmastre, il giusto picco di acidità, la moderata dolcezza, la componente elegantemente esotica del pepe di timut, e la freschezza in chiusura conferita dalla maggiorana.
I secondi rimarcano l’approccio etico del ristorante Linfa, facendo emergere dai fondali tirrenici un Morone (anche noto come pesce burro) pescato e servito con pesto di alghe e melanzane. Un piatto memorabile per esecuzione e abbinamento, e un’importante lezione di Alta Cucina per tutti quei ristoranti e cuochi che continuano a misurarsi unicamente con branzini, orate e triglie.
E sempre in nome dell’approccio etico e della cucina antispreco, il Piccione, panforte e foglie di vite presenta un esercizio virtuoso, utilizzando ogni parte del volatile «eccezion fatta per il becco», come si appresta giustamente a sottolineare lo chef Vincenzo Martella. Il petto è servito in dolceforte, onorando la tradizione toscana, con gemme di pino marittimo in conserva e scorzanera a filangé essiccata. Il panforte – tipico dolce di tradizione millenaria senese – è qui realizzato con i fegatini e il cuore e viene accompagnato nel piatto con il filetto marinato in sale bilanciato, per accrescerne la consistenza. La coscia, squisita, è sfemorata, panata alla milanese, cotta nel burro chiarificato e servita con una composta di prugne acide. In sintesi: il miglior piccione dell’ultimo decennio! Piatto profondamente tecnico, eppure squisitamente immediato al palato.
La conclusione al ristorante Linfa è imperdibile anche per i più freddi estimatori della parentesi dolce: a partire dal predessert, finalmente studiato per accompagnare il palato dalla degustazione alla chiusura, in cui una Panzanella toscana si spoglia dalla tradizione per riproporsi con un gelato al pane, crema di basilico, capperi al miele, cetrioli in osmosi, cipolla in agrodolce, pomodoro confit e crumble di pane.
Ogni dolce creato dalla pastry chef Margherita Maleotti, sotto la regia dello chef Martella è votato a freschezza e leggerezza, come la Cialda al miele, polvere di olive e lamponi servita con sorbetto all’olivello spinoso, streusel alla mandorla e caprino di Caporbiano, proveniente da una fattoria in cui tutto viene prodotto come una volta. Un dolce-non-dolce epico che sarebbe sufficiente per riservare un tavolo al ristorante Linfa.
L’ambiente, raccolto e accogliente, ospita otto tavoli caratterizzati da una mise-en-place minimal e raffinata con sedute in velluto colorato realizzate dalla Signora Genziana – mamma di Lorenzo – opere d’arte alle pareti e un pianoforte posto a separare ingresso e sala.
Luci e musica soffusa completano l’atmosfera di un ambiente già di per sé di grande suggestione, inserito in uno stabile risalente al XIII secolo che poggia su un terreno di tufo e che sovrasta una cantina scavata nella medesima roccia in cui il ristorante Linfa custodice un’importante riserva di circa 600 etichette, orientata – come è giusto che sia – al terriotorio toscano.